Fonte: http://gaianews.it/s...seid-58398.html
Secondo una ricerca dell’University of Florida Health (UF), il meccanismo che durante prestazioni elevate porta gli atleti ad avvertire il caratteristico ‘bruciore’ muscolare da sforzo risulterebbe essere il vero responsabile di ciò che porta le persone affette dalla cosiddetta ‘Sindrome da stanchezza cronica’ a sentirsi esausti nello svolgimento delle attività quotidiane più comuni.
Pubblicato nel numero di febbraio della rivista Pain, lo studio mostra che responsabili sarebbero i percorsi neurali che trasmettono le sensazioni di affaticamento al cervello e che nei pazienti affetti da fatica cronica funzionerebbero – paradossalmente – ‘troppo bene’.
Diciamo subito che la definizione ‘Sindrome da stanchezza cronica’ o – come veniva finora definita – dall’acronimo CFS (Chronic Fatigue Syndrome) è stata ufficialmente archiviata da una commissione dell’Istituto di Medicina (IOM) della National Academy of Sciences degli Stati Uniti, presieduta da Peter Rowe, direttore del Johns Hopkins Children’ Center di Baltimora, Maryland.
Gli studiosi hanno ritenuto opportuno definire ex novo questa malattia, ribattezzandola SEID (Systemic exertion intolerance disease o malattia da intolleranza sistemica allo sforzo) dato che, secondo loro, la definizione di sindrome da fatica cronica ‘ha reso un cattivo servizio ai pazienti’, perchè troppo spesso associata ad altre patologie e anche perchè ‘stigmatizzante e banalizzante’ e, infine, perché ‘non descrive con precisione le caratteristiche principali della malattia’.
I risultati dello studio dell’UF forniscono anche, per la prima volta, la prova che i muscoli contribuiscono alla percezione della stanchezza.
I ricercatori si sono concentrati sul ruolo svolto nella malattia dai metaboliti muscolari, tra cui l’acido lattico e l’adenosina trifosfato o ATP.
Lo studio sembra aver dimostrato per la prima volta che i metaboliti rilasciati durante un esercizio fisico dai muscoli sembrano attivare i percorsi neurali fino al cervello.
Inoltre, pare che queste vie appaiano molto più sensibili nei pazienti con SEID rispetto alle persone sane, cosa mai testata fino ad oggi.
A confermare questi risultati è il dr Roland Staud, professore di Reumatologia e Immunologia clinica del Collego di Medicina dell’UF, che è anche l’autore principale della ricerca.
Per la sperimentazione, Staud e il co-autore Michael E. Robinson, professore di Psicologia clinica della stessa UF, hanno reclutato 39 pazienti affetti da SEID e 29 soggetti sani.
Ai partecipanti è stato fatto indossare un bracciale per la misurazione della pressione arteriosa e quindi sono stati invitati ad azionare un dinamometro, stringendolo al massimo della loro capacità per il maggior tempo possibile.
Alla fine dell’esercizio, il bracciale veniva gonfiato per mantenere nell’avambraccio, prima che venissero eliminati dal sistema cardiocircolatorio, i metaboliti prodotti dallo sforzo. Questi quindi hanno continuato a trasmettere al cervello, mediante i percorsi neurali, messaggi di affaticamento e di dolore.
Mantenendo i bracciali gonfiati, è stato poi valutato il livello della stanchezza e del dolore a intervalli di 30 secondi, riscontrandoli in entrambi i gruppi di partecipanti, ma ad un livello molto più elevato nei pazienti con SEID.
Dopo 30 minuti, l’esercizio è stato fatto ripetere sull’altro braccio, senza bracciale.
In questa seconda fase, tutti e due i gruppi hanno sperimentato la fatica, ma la sensazione di fatica negli affetti da SEID si presentava molto più bassa rispetto al primo esperimento in cui i metaboliti erano rimasti nell’avambraccio.
“Dallo studio è emersa l’importanza delle vie neurali nel ruolo svolto dalla fatica legata all’esercizio muscolare”, afferma Staud.
“Nei vari studi condotti sul dolore relativo a queste sindromi complesse, abbiamo scoperto che sono sempre coinvolti sistema nervoso centrale e periferico”, ribadisce Robinson.
Staud si prefigge ora di tentare qualche via per instaurare un trattamento, conducendo peraltro studi di brain-imaging sui pazienti con SEID.